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Vittorio Valletta: l’uomo che rese grande la Fiat

Vittorio Valletta Fiat 508 Balilla
Vittorio Valletta: fu uno dei massimi dirigenti della Fiat dalla fine degli anni Venti al termine degli anni Sessanta. Ecco la sua storia.

Il 10 agosto 2017 ricorrono 50 anni dalla morte di Vittorio Valletta. Egli fu uno dei massimi dirigenti della Fiat dalla fine degli anni Venti al termine degli anni Sessanta. Condusse la Fiat virtualmente da solo nella delicatissima fase di ricostruzione postbellica e quando la consegnò a Gianni Agnelli, solo un anno prima di morire, era in piena espansione, diventata una delle principali industrie europee.

Ma anche nel lungo periodo in cui fu il braccio destro del fondatore Giovanni Agnelli, riuscì a mantenere a galla l’azienda in anni di tremenda difficoltà economica e politica. Sotto molti punti di vista e per parecchi anni, Valletta fu la Fiat. Doveroso quindi ripercorrere le fasi salienti della sua carriera nell’azienda: praticamente la sua intera vita. Fonte principale di questo ritratto è il libro dello studioso Valerio Castronovo, scritto in occasione del centenario dell’azienda torinese: “Fiat 1899-1999, un secolo di storia italiana”.

I primi anni e l’incontro con Agnelli

Vittorio Valletta nacque il 28 luglio 1883 a Sampierdarena, Genova. Trasferitasi la famiglia a Torino, il giovane Vittorio si diplomò prima come ragionere e poi si laureò all’Istituto superiore del Commercio. Emerse presto come uno dei migliori commercialisti di Torino. Dopo la prima guerra mondiale (a cui partecipò nella neonata Aviazione, era un pilota) Valletta amministrò una fabbrica torinese di accessori per aeroplani, la Chiribiri, che si riconvertì alla produzione di automobili con un discreto successo.

Nel 1920 Giovanni Agnelli, dopo le violenze socialcomuniste in tutta Italia e le occupazioni delle fabbriche, Fiat compresa, rischiava di perdere il controllo dell’azienda da lui fondata, si parlava di nazionalizzazione e di gestione operaia. Tentò un azzardo, dimettendosi e proponendo di vendere le azioni ad una improbabile cooperativa di operai.

Molti tra gli investitori temevano un salto nel buio ed erano indecisi, ma altri vedevano un’opportunità per mettere le mani sulla Fiat. Fu proprio Valletta, diventato nel frattempo azionista, a far pendere la bilancia verso Agnelli, durante la decisiva assemblea degli azionisti del 28 ottobre. Un suo discorso molto chiaro fece capire che senza il fondatore sarebbe saltato il banco e con esso tutti i capitali investiti. Agnelli venne confermato alla presidenza. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1921, Vittorio Valletta entrò ufficialmente nell’organico della Fiat come direttore amministrativo centrale. Tuttavia per diverso tempo ancora continuò ad insegnare all’università. Ecco perché tutti lo chiamarono sempre “Professore”.

Arriviamo al 1928. La Fiat ha intrapreso una forte espansione, da qualche anno è stato completato il colossale e avveniristico stabilimento del Lingotto. Ma i problemi non sono scomparsi. Il mercato interno continua ad essere troppo piccolo e le materie prime hanno costi altissimi. In più, le relazioni con i fascisti sono difficili, per non parlare dei rapporti con lo stesso Benito Mussolini. Proprio in quel momento Agnelli si trova solo. Se ne sono andati i suoi principali dirigenti. Il giovane figlio Edoardo non è ancora giudicato pronto a prendere le redini dell’azienda. Ancora una volta Vittorio Valletta sembra l’uomo migliore. Nel febbraio 1928 viene nominato direttore generale della Fiat.

Vittorio Valletta prende le redini della Fiat: gli anni ’30 e la Guerra

Per tutti gli anni Trenta Valletta ha seguito e assecondato le iniziative di Giovanni Agnelli, nominato nel frattempo senatore. Ma il fondatore invecchiava; i rapporti con Mussolini, sempre più difficili e tesi, e le ombre sul futuro per una guerra sempre più probabile costituivano la maggior parte delle sue preoccupazioni. Era imperativo quindi che la conduzione dell’azienda restasse in mani salde.

Il figlio Edoardo era morto nel 1935 in un incidente aereo; l’erede designato, il nipote Gianni, aveva solo 18 anni. Di conseguenza nel febbraio 1939 Valletta venne nominato amministratore delegato della Fiat, tre mesi prima dell’inaugurazione dello stabilimento di Mirafiori. In quei mesi Valletta trascorrerà più tempo a Roma che a Torino, “ministro degli esteri” di Agnelli per cercare di non inimicarsi Mussolini (che, per inciso, odiava il padrone della Fiat), almeno non più del solito. Scoppiata la guerra, Valletta tentò l’impossibile per mantenere viva la Fiat, tra produzione obbligata, commesse non pagate e danni subiti durante i bombardamenti alleati, che a loro volta provocavano il caos tra le maestranze.

Fino all’8 settembre 1943. Armistizio, i tedeschi invasero il Paese. Agnelli da qualche mese viveva quasi sempre in ritiro a Villar Perosa, da tempo in rotta di collisione con i fascisti. Valletta dirigeva la Fiat praticamente da solo. Gli imperativi immediati erano due: impedire che i nazisti considerassero Agnelli e il resto della Fiat, incluso lui stesso, dei traditori di Mussolini, finendo quindi davanti ad un plotone di esecuzione; evitare che le fabbriche venissero smantellate e il materiale portato in Germania.

Anche qui il diplomatico Valletta emerse in tutta la sua perizia, nonostante la Gestapo premesse per arrestare lui e Agnelli. Ma poiché Valletta era anche un patriota, intraprese contemporaneamente un gioco rischiosissimo: sabotare i tedeschi rallentando e ostacolando con mille trucchi la produzione, per ritardare loro le forniture di armamenti. Mentre sottobanco inviava aiuti alla Resistenza tramite dirigenti fedeli.

Il dopoguerra: l’epurazione e il ritorno in sella

Tuttavia dopo la liberazione dell’Italia questo esercizio di equilibrismo letale fu visto come collaborazionismo dalle sinistre. Valletta e Agnelli vennero epurati dal Comitato di liberazione nazionale e i loro beni personali sequestrati, così come l’intera Fiat, il 28 aprile 1945.

Non si trattava solo di una condanna economica: se Agnelli era ben protetto, poiché risiedeva praticamente nella sede del comando alleato, Valletta invece rischiava nuovamente di venire ucciso. Perché le ali più estreme dei comunisti stavano cercando d’impadronirsi del Paese. Tuttavia ben presto le pressioni degli americani, dello stesso capo del PCI Palmiro Togliatti (molto più pragmatico degli altri scalmanati) e del capo della DC Alcide De Gasperi fecero capire al CLN che quelle accuse non stavano in piedi. La situazione tornò sotto controllo.

Chi avrebbe gestito la Fiat? Il fondatore Giovanni Agnelli era morto il 16 dicembre 1945, lottando negli ultimi mesi per vedere riabilitato il proprio nome, cosa che avvenne proprio in extremis. Gianni Agnelli aveva 24 anni. Stagionato dalla guerra ma ancora privo di esperienza come manager. Era pronto a prendere le redini del comando? Oppure si sarebbe sbarazzato di un’eredità scomoda, vendendo tutto al miglior offerente? Il problema in realtà non si pose mai. Il 16 gennaio 1946 si riunì per la prima volta dall’armistizio il consiglio di amministrazione, composto dai vecchi soci del fondatore e dal nipote Gianni.

Valletta venne confermato amministratore delegato con pieni poteri. E Gianni Agnelli? In un’intervista alla RAI nel 1981 l’Avvocato ricordò una conversazione avuta in quel periodo con Valletta. “Egli mi disse: «Qui il presidente o lo fa lei o lo faccio io». Avevo la scelta tra essere un presidente sotto tutela, data la mia giovane età e scarsa esperienza, oppure affidare l’impegno a quello che era stato il più valido collaboratore di mio nonno. Lo feci con gioia; lui assunse l’impegno col senso di responsabilità che ha sempre avuto e condusse egregiamente per vent’anni la Fiat”. Valletta venne nominato presidente della Fiat l’8 luglio 1946.

I problemi da risolvere erano gravissimi. Distruzione fisica in buona parte di stabilimenti e impianti, manodopera il doppio del normale e soprattutto pochissimo denaro. I capitali nella quantità necessaria potevano arrivare da una sola parte: gli Stati Uniti, i quali però erano molto diffidenti nei confronti dell’Italia. Quindi Valletta agì con pazienza e alacrità in quei mesi febbrili su Washington e New York, quasi più che su Roma. Le relazioni e il rispetto che il Professore si era guadagnato in un quarto di secolo di attività ai vertici della Fiat contavano ancora molto, perché lui riuscì spesso ad ottenere prestiti dove invece gli uomini di governo venivano presi a pesci in faccia.

L’espansione degli anni ’50

Il mercato automobilistico interno era ancora rarefatto. La Fiat 500 Topolino del 1936 era molto invecchiata, serviva qualcosa di nuovo. Quindi venne avviato il progetto che avrebbe motorizzato l’Italia una volta per tutte. Il programma di due modelli veramente popolari, una vettura a quattro posti e una più piccola a due. Il seme per la nascita della Fiat 600 e della Fiat Nuova 500 era stato piantato. Fu l’inizio di un’ascesa continua, sempre però col senso della misura. L’accesso agli enormi capitali del piano Marshall fece il resto.

Fiat 500 Topolino

La Fiat stava crescendo insieme all’Italia e al resto dell’Europa. L’istituzione della NATO in funzione di barriera militare antisovietica diede un notevole impulso all’industria aeronautica e l’azienda torinese recitò un ruolo importante, ad esempio producendo il caccia G-80, il primo aereo a reazione italiano.

La riforma agraria e i soldi della Cassa del Mezzogiorno crearono una forte domanda di meccanizzazione in agricoltura, Fiat ci mise i trattori. Ma la spina nel fianco aveva sempre un colore rosso. La CGIL e il suo braccio metalmeccanico FIOM ce la mettevano tutta per ostacolare l’azienda torinese, il loro nemico atavico. Gli attriti furono parecchi e anche molto pesanti con scioperi sempre più duri. Questo preoccupava gli americani, i quali minacciavano di chiudere i cordoni della borsa. Ma Valletta era un duro. Cominciò quindi ad agire per allontanare gli elementi comunisti più oltranzisti dall’azienda. E tornare con questi risultati negli Stati Uniti per dare il benvenuto al nuovo presidente Eisenhower. La Fiat, insieme al resto del mondo, era entrata in pieno nella guerra fredda.

Fiat 600

Il 10 marzo 1955 venne presentata al salone di Ginevra la Fiat 600. La vetturetta che sostituiva la Topolino innescò il boom della Fiat e dell’Italia, accelerato due anni più tardi dall’arrivo della Nuova 500. Fatturato e profitti crescevano senza sosta, la produttività aumentava. Ma migliorava anche il trattamento degli operai, una volta liquidata la FIOM. Le paghe erano discrete per la media nazionale e venivano intraprese politiche di welfare in proprio. Valletta istituì anche un sistema di formazione per i quadri aziendali. Era tempo di accelerare sull’espansione all’estero, anzi all’est.

Gli anni ’60 – Un colosso europeo: il capolavoro in Unione Sovietica

Nel 1960 Vittorio Valletta aveva 77 anni ma era ancora nel pieno delle sue facoltà e tutte le sue energie erano dedicate all’azienda. Per lui non esisteva vita al di fuori della Fiat. La Fiat era tutto. E la Fiat doveva tutto a lui, perché era diventata un colosso internazionale, in piena espansione.

Fiat Nuova 500 Abarth

Da sola l’azienda torinese rappresentava oltre l’80% del mercato automobilistico nazionale e il 10% dell’intera produzione industriale italiana. Non solo: produceva oltre mezzo milione di vetture all’anno, corrispondente ad una quota del 4,7% del mercato mondiale. Ed era il secondo costruttore europeo dietro la Volkswagen. Oltre 90.000 dipendenti, esportazioni intorno al 30% della produzione in oltre cento paesi in tutto il mondo. I piani per l’espansione produttiva includevano l’ingresso nella nuova frontiera dell’elettronica e dell’automazione. Era tempo ormai per l’ultimo capolavoro del Professore: la conquista dell’Unione Sovietica.

Nei primi anni Sessanta le relazioni tra Italia e URSS migliorarono al punto da stringere importanti accordi commerciali; questa volta i i fulmini e i livori degli americani, nonché del Vaticano, avevano meno effetto, perché l’Italia era in pieno boom economico e si era trasformata in un’importante nazione industriale. Valletta voleva tornare sul mercato russo. Tuttavia era necessario tenersi buoni gli Stati Uniti. Il Professore quindi il 15 maggio 1962 riuscì a farsi ricevere dal presidente John Kennedy. Il quale a sua volta voleva un parere illustre ed esterno sul governo di centrosinistra italiano da poco nato. Evidentemente Valletta fece un’impressione molto positiva al nuovo capo di Washington, perché Kennedy diede la sua “benedizione” al progetto vallettiano di costruzione in URSS di automobili Fiat.

Il prestigio di Valletta e della Fiat ormai era tale che, dopo sole due settimane dal colloquio con Kennedy, il capo del Politburo Nikita Kruscev chiese d’incontrare il Professore, entusiasta dopo aver fatto un giro su una Fiat 2300 inviatagli da lui in omaggio. E Valletta si prese pure il lusso di farlo aspettare un po’. Arrivò a Mosca solo il 9 giugno, accolto come un capo di Stato. L’11 giugno 1962 fu ricevuto da Kruscev. In meno di un mese Valletta incontrò e convinse i due uomini più potenti del mondo.

Tuttavia nei due anni successivi il mondo cambiò un’altra volta e non in senso positivo. Il boom economico italiano era agli sgoccioli, Kennedy venne assassinato e Kruscev defenestrato, scoppiò la guerra in Vietnam, ricominciarono le agitazioni sindacali. Mentre intorno a lui il pianeta stava nuovamente precipitando in una spirale pericolosa, Valletta tirava dritto per la sua strada, anche perché ormai aveva superato l’ottantina, non gli restava molto tempo, sebbene difendesse il suo comando con le unghie e con i denti.

Gianni Agnelli da diversi anni lo seguiva in tutte le sue evoluzioni diplomatico-industriali; era vicepresidente da un bel po’ e scalpitava per prendere il timone dell’azienda. Ma il professore non mollava e Agnelli doveva rassegnarsi. Castronovo cita nel suo libro una reminescenza dell’Avvocato: “Quando gli dicevo che avrei assunto la presidenza vedevo che gli arrecavo un dolore”. Tra l’altro, Valletta continuava a non ritenere Agnelli pronto a succedergli alla presidenza, nonostante avesse ormai 43 anni e fosse vicepresidente da quasi 20. Preferiva invece Gaudenzio Bono, amministratore delegato dal 1955, il suo vero braccio destro.

Era il 1964. Le trattative con Mosca proseguivano senza sosta, mentre Mirafiori sfornava l’erede della 600, la Fiat 850. Fra poco sarebbe uscita anche la nuova berlina media, la Fiat 124. Ecco che ci avviciniamo all’epilogo. L’ultimo regalo di Kruscev a Valletta fu l’autorizzazione al via, prima di cadere nelle grinfie di Breznev ad ottobre. Ma il progetto andò avanti anche sotto Breznev. Mentre a Washington Lyndon Johnson aveva ben altri grattacapi per preoccuparsi di quello che faceva la Fiat.

Lada 2101 – Fiat 124 URSS

Valletta tornò a Mosca il 27 giugno 1965. Ora si faceva sul serio. Breznev non era proprio entusiasta, quindi il Professore dovette dare fondo a tutta la sua abilità diplomatica, per l’ennesima volta. La Fiat avrebbe progettato e costruito una moderna fabbrica in Unione Sovietica per produrre un nuovo modello di automobile, da costruire in circa 2.000 esemplari al giorno. Tuttavia ciò su cui si mise la firma non era ancora un contratto vero e proprio, ma un accordo preliminare. Poteva ancora andare tutto all’aria.

Anche perché i francesi avevano le stesse mire e stavano masticando amaro. Il presidente De Gaulle stava per recarsi a Mosca proprio per promuovere la causa della Renault, azienda di Stato. I russi, maestri giocatori di scacchi, cominciarono a prendere tempo, soppesando le opzioni. Perché era soprattutto una questione di denaro. Le cifre in gioco erano colossali. Si stava negoziando soprattutto sui tassi d’interesse da accordare all’URSS per i prestiti necessari. Alla fine l’Unione Sovietica scelse l’Italia e la Fiat. Il protocollo d’intesa tra Fiat e URSS venne firmato il 4 maggio 1966. La prestigiosa rivista americana Time onorò Valletta di una copertina.

L’accordo prevedeva la costruzione della fabbrica in una oscura località lungo il Volga chiamata originariamente Stavropol, ma rinominata due anni prima Togliatti (in Italia viene detta non correttamente Togliattigrad), in memoria di Palmiro Togliatti, scomparso il 21 agosto 1964 a Yalta. Il modello scelto era la nuovissima ed eccellente berlina Fiat 124. La versione sovietica si sarebbe chiamata Lada 2101. Nelle sue varie versioni avrebbe motorizzato il più grande Paese del mondo, venendo prodotta in oltre 15 milioni di esemplari fino al 2012.

Fu il canto del cigno di Vittorio Valletta. Perché il 30 aprile 1966 aveva rassegnato le dimissioni. Gianni Agnelli aveva assunto la presidenza della Fiat, mentre Gaudenzio Bono manteneva la carica di amministratore delegato, aggiungendo quella di direttore generale. Valletta rimaneva come presidente onorario e “delegato speciale”. Oggi si direbbe consulente. Si chiudeva un’era, in tutti i sensi. Il 28 novembre 1966 il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat lo nominò senatore a vita. Ma, come egli stesso aveva detto alcuni anni prima, la sua vita era la Fiat.

Vittorio Valletta morì a causa di un’emorragia cerebrale il 10 agosto 1967 mentre si trovava in breve villeggiatura a Pietrasanta, in Liguria. Stava lavorando ancora. Le sue ultime parole, in una lettera diffusa subito dopo la morte: “Sono certo di avere assolto il dovere assegnatomi da mia madre: operare nell’interesse di tutti, ma soprattutto di chi fatica e lavora”. Altri tempi, decisamente.

[Photo Fiat press office]

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