113 anni di Lancia. In una fredda giornata di tardo autunno il rigido clima torinese faceva da cornice ad un atto come tanti, la costituzione di una società. Nessuno fra i presenti in quello studio notarile in quel momento pensava di assistere all’inizio di una prestigiosa storia dell’industria automobilistica italiana.
Era il 27 novembre 1906: nel capoluogo piemontese veniva firmato l’atto di fondazione della Lancia. In più di un secolo momenti gloriosi si sono alternati a periodi difficili. Oggi questo marchio vive il momento del crepuscolo, sebbene riesca ancora a piazzare il suo unico modello attuale al terzo posto delle classifiche di vendita italiane. Ma l’immutabile passato di questa azienda è scolpito non solo negli archivi e nelle biblioteche ma, soprattutto, nella memoria di tanti appassionati italiani (e non solo). Una storia che nessuno potrà cancellare, indipendentemente dal futuro produttivo. Ripercorriamone i passi più importanti e suggestivi.
Gli inizi: Vincenzo Lancia
Vincenzo Lancia nacque nel 1881 in Valsesia. Suo padre, il cavalier Giuseppe, era un imprenditore di successo nel settore dei cibi in scatola. Negli ultimi anni del XIX secolo la famiglia possedeva un palazzo a Torino, dove risiedeva, in via Vittorio Emanuele, 9. Al pianterreno di questo stabile svolgeva l’attività l’officina meccanica Ceirano.
Si trattava della maggiore azienda produttrice di automobili nella città, prima che la Fiat nascesse rilevandola nel 1899. Il giovane Vincenzo Lancia mostrò subito la passione per i motori e ottenne dal padre l’autorizzazione a lavorare nell’officina. In breve tempo egli divenne uno dei migliori piloti collaudatori della Fiat, in un’epoca in cui collaudare un’auto era solo leggermente meno pericoloso che farsi sparare addosso.
Lancia partecipò anche a diverse di quelle pionieristiche competizioni del primo Novecento, dove si mise in mostra per le sue doti di audacia ma anche di freddezza. Nel 1905 divenne molto popolare negli Stati Uniti grazie ad una grande prestazione alla Coppa Vanderbilt (dove non vinse).
Nel 1906 Vincenzo decise che i tempi erano maturi per tentare l’avventura come costruttore. Quindi fondò insieme all’amico Claudio Fogolin, anch’egli collaudatore alla Fiat, la società Lancia & C., le cui quote erano divise a metà fra i due. Tuttavia Giovanni Agnelli convinse Lancia a continuare a correre per la Fiat, poiché era il miglior pilota in circolazione. Vincenzo proseguì questo impegno per due anni. Poi diventò imprenditore a tempo pieno.
Gli anni terribili
La prima fabbrica della Lancia fu in via Ormea, in un’officina dismessa dalla Itala. Le speranze erano molte tuttavia il momento non poteva essere peggiore. Infatti tra il 1906 e il 1907 una grande bolla speculativa mise in ginocchio la fragile industria automobilistica italiana, già alle prese con un forte calo della domanda dovuto ad una grave crisi economica generale.
Molte aziende scomparvero e perfino la Fiat rischiò di chiudere i battenti. Come se non bastasse, nel febbraio 1907 un grosso incendio nello stabilimento Lancia distrusse macchinari e parte dei progetti. Ma i due soci tennero duro e alla fine di quell’anno produssero il primo telaio (a quell’epoca le carrozzerie venivano costruite separatamente, su indicazioni precise dei clienti): era la 12HP.
La consuetudine di nominare i modelli usando le lettere dell’alfabeto greco arrivò solo nel 1919, un’idea del fratello di Vincenzo, Giovanni, studioso di lettere classiche. Quindi si procedette anche a ribattezzare i modelli precedenti. Fu così che la 12HP diventò la Lancia Alfa, cioè la prima. Niente a che vedere con la milanese A.L.F.A, questa è un’altra storia. La 12HP aveva un motore 2.5 a quattro cilindri, permetteva di raggiungere 90 Km/h, velocità ragguardevole per quei tempi.
Le prime Lancia riflettevano una chiara filosofia tecnica che ci mostra quanto Vincenzo fosse un innovatore: forte dell’esperienza di pilota, volle macchine abbastanza veloci ma soprattutto solide, un punto molto debole delle vetture di quell’epoca. Le Lancia dovevano essere guidabili per lunghi percorsi sulla maggior parte delle strade. La chiave quindi non doveva essere la potenza del motore, quanto piuttosto la leggerezza del telaio.
Una lezione che anticipava di circa 60 anni ciò che Colin Chapman rese celebre con la Lotus: un’auto potente è veloce in rettilineo, una leggera lo è ovunque. Quindi fin dagli inizi le Lancia furono auto raffinate per un pubblico di intenditori.
La Lancia arrivò a ridosso della prima guerra mondiale in piena espansione, grazie anche a forti esportazioni, in particolare in Gran Bretagna. Nel 1911 la fabbrica venne trasferita in un’area di centomila metri quadri in via Monginevro. Il concetto di “piattaforma modulare” non è un’invenzione delle fabbriche robotizzate di oggi. Vincenzo era innovatore anche nelle strategie produttive.
Ad esempio la 35HP del 1913, poi nota come Theta, dallo stesso chassis poteva sfornare un carro armato, una limousine, un camion e anche una torpedo (carrozzeria scoperta e abbastanza aerodinamica, d’impostazione spesso sportiva). E fu anche la prima auto europea a dotarsi di avviamento elettrico.
Il primo Dopoguerra: la rivoluzione della Lambda
Nell’agosto del 1918 Vincenzo Lancia restò l’unico proprietario dell’azienda, rilevando la parte di Fogolin che aveva deciso di ritirarsi. La Lancia sopravvisse ai turbolenti anni Venti grazie alla fama guadagnata come costruttore di auto di lusso e innovative.
Ne fu un eccellente esempio la Lambda che introdusse nel 1922 una rivoluzione: la scocca portante, cioè la fusione tra carrozzeria e telaio, insieme alla sospensione anteriore a ruote indipendenti e un motore a quattro cilindri disposti a V stretta. Grazie a queste soluzioni, la Lancia Lambda pesava la metà delle concorrenti ed era notevolmente più sicura (e ovviamente più veloce perché le altre pesavano il doppio).
Il successo commerciale di questo modello permise alla Lancia di migliorare ulteriormente la qualità delle proprie vetture, puntando particolarmente sulla sicurezza; in questo l’azienda torinese era all’avanguardia di almeno mezzo secolo.
Gli anni ’30: il consolidamento
La qualità tecnica delle Lancia era tale che negli anni divenne la marca preferita dalle élite, non solo italiane. Un grande “testimonial” indiretto fu re Vittorio Emanuele III, grande appassionato d’auto fin dalla gioventù (fratello maggiore dell’automobile stessa, essendo nato nel 1869); era infatti risaputo negli ambienti importanti che il sovrano amava farsi trasportare solo da auto Lancia. Un altro personaggio molto influente, Galeazzo Ciano, ne possedeva diverse. Ci pensava Mussolini a bilanciare il confronto, preferendo il duce le veloci Alfa Romeo.
Dato che le Lancia venivano comprate solo da ricchi o benestanti, anche la grave crisi economica mondiale innescata dal crollo di Wall Street del 1929, che avrebbe investito in pieno l’Italia solo qualche anno più tardi, fu superata senza grossi traumi. Fu importante per i conti aziendali anche la diversificazione intrapresa negli anni precedenti, diretta verso il settore dei veicoli industriali, che conobbe un discreto successo anche internazionale.
Aprilia: il canto del cigno di Vincenzo
Il modello simbolo degli anni Trenta fu indubbiamente l’Aprilia. Vincenzo Lancia voleva un’auto compatta e leggera, ovviamente sempre all’avanguardia della tecnica. In particolare la voleva molto aerodinamica, un aspetto a quell’epoca poco considerato dai progettisti. Nel frattempo, nel 1935, venne aperta la nuova fabbrica di Bolzano, che dopo la guerra sarebbe stata destinata alla produzione dei veicoli pesanti.
In un test sul prototipo Aprilia nel 1936 lo stesso Vincenzo spinse la vettura a 130 Km/h, esclamando “Che macchina magnifica!”. Ma andava troppo veloce, così fu deciso di limitarla a 125 Km/h. Questo modello aveva tantissimo di nuovo e avanzato, troppo per ripercorrerlo in questa sede. Vanno ricordate a titolo di esempio le sospensioni a ruote indipendenti. Il motore a 4 cilindri 1.350 da 50 cavalli la rendeva scattante.
L’Aprilia fu il canto del cigno di Vincenzo Lancia, poiché il fondatore di quest’azienda morì il 15 febbraio 1937 per un infarto, all’età di 55 anni. Non riuscì nemmeno a vedere l’avvio della produzione di questo modello. Ma l’Aprilia fu il migliore omaggio alla memoria di Vincenzo. Presto conquistò la facoltosa clientela e anche il mondo delle corse nelle categorie fino a 1.500; il suo successo attraversò anche la guerra. Venne prodotta fino al 1949 in 27.836 esemplari.
La rinascita: Gianni Lancia e l’Aurelia
Ci volle un intero decennio prima che il vertice aziendale orfano di Vincenzo tornasse ad una certa stabilità. L’unico avvenimento di rilievo fra il 1937 e il 1947 fu l’arrivo nel febbraio 1938 del progettista Vittorio Jano, il creatore delle Alfa Romeo leggendarie che dominarono le corse nel decennio precedente.
Nel 1947 tornò il sereno nel management con l’ingresso al vertice di Gianni Lancia, figlio di Vincenzo. Ingegnere, 23 anni, Gianni puntò molto sulle competizioni, facendo entrare la Lancia anche nella giovane Formula 1. Gli anni Cinquanta furono segnati da un modello che ancora oggi rimane nel cuore degli appassionati: l’Aurelia.
Presentata nel 1950 in versione berlina e cabriolet e nel 1951 con carrozzeria coupé, era disegnata da Pininfarina e progettata da Vittorio Jano. Suo il motore V6, il primo al mondo. Quindi l’Aurelia seguiva in pieno la tradizione altamente innovativa che faceva parte del DNA Lancia. Cilindrata di due litri, l’Aurelia si rivelò perfetta per le corse. Vinse per due volte la 24 ore di Le Mans nella propria classe, poi la Targa Florio e la Mille Miglia. Da ricordare particolarmente, per la sua bellezza, la serie B24 spider del 1954, resa immortale dal film “Il sorpasso”, interpretato da un memorabile Vittorio Gassman.
La Formula 1, la crisi e la cessione
Tuttavia i buoni risultati commerciali dei modelli stradali non bastavano a sostenere il pesantissimo impegno finanziario nelle corse, in particolare in Formula 1. L’anno cruciale fu il 1955. Vittorio Jano realizzò il suo capolavoro, la monoposto D50, alla fine del 1953.
Tutti erano convinti che avesse le carte in regola per contendere il titolo alle superlative Mercedes di Juan Manuel Fangio e Stirling Moss. Allora Gianni Lancia convinse due assi del calibro di Alberto Ascari, campione del mondo con la Ferrari nelle due stagioni precedenti, e di Luigi Villoresi. Ma ci vollero parecchi mesi per la messa a punto, così nel 1954 la vettura poté partecipare solo all’ultima corsa della stagione, il Gran Premio di Spagna. Ascari conquistò la pole position, ma in gara si ritirò dopo 10 giri mentre era in testa, mentre Villoresi ne percorse solo due. Guasto alla trasmissione per il primo, ai freni per il secondo.
Nel 1955, in Argentina due incidenti misero fuori causa le due Lancia principali (ne erano schierate quattro). Ma al Gran Premio del Valentino, a Torino, arrivò la riscossa. Ascari vinse e Villoresi fu terzo. I due si ripeterono a Napoli. Ma il momento di svolta, negativa, fu il Gran Premio di Monaco, il 22 maggio.
La Lancia col morale alle stelle schierava quattro vetture. Le Mercedes sentivano il fiato sul collo di Ascari, che girava negli stessi tempi di Fangio. In gara le vetture tedesche sembravano inizialmente imprendibili ma incredibilmente si ritirarono entrambe per impensabili guasti. Ascari era al comando da un solo giro quando, alla chicane del porto, un bloccaggio ai freni lo costrinse ad andare dritto per evitare di travolgere gli spettatori. Così finì in acqua, niente guard-rail o muretti a quell’epoca.
Restò illeso, ma era solo il destino beffardo e malevolo che si divertiva con lui: solo quattro giorni dopo, il 26 maggio 1955, Alberto Ascari, uno dei campioni più cristallini di tutti i tempi, morì in quell’oscuro incidente all’autodromo di Monza mentre provava una Ferrari 750 Sport dell’amico Eugenio Castellotti.
Per la Lancia fu il tracollo, in tutti i sensi. La morte di Ascari in realtà accelerò in modo brutale un processo già avviato da tempo da Gianni Lancia: la cessione dell’azienda. Perché la situazione finanziaria era precaria e il figlio del fondatore aveva perso l’entusiasmo. La tragedia di Monza convinse Gianni a decidere di chiudere immediatamente l’avventura in Formula 1, così cedette tutte le vetture, gratuitamente, alla Ferrari. Che nel 1956 le usò per vincere il mondiale con Fangio. Un’amara soddisfazione tardiva. L’azienda fu invece acquistata nel 1956 dall’industriale del cemento Carlo Pesenti, per meno di 10 miliardi di lire.
Il galleggiamento degli anni ’60: Chivasso
Pesenti delegò il suo fidato manager Aldo Panigadi a condurre l’azienda come amministratore delegato; successivamente verrà sostituito da Eraldo Fidanza, poi arriverà Massimo Spada. La direzione tecnica era invece passata da qualche anno ad Antonio Fessia, eccellente ingegnere proveniente dalla Fiat, dove negli anni ’30 aveva contribuito allo sviluppo di Balilla e Topolino.
Negli anni ’60 la Lancia continuò a sfornare modelli di alto pregio e sempre all’avanguardia, come Flaminia, Flavia e Fulvia. Nel 1963 venne inaugurata la grande fabbrica di Chivasso, alle porte di Torino, dove la neonata Fulvia aveva bisogno di essere assemblata. Tuttavia la competizione interna ed estera si faceva sempre più serrata. Le vendite calavano e i debiti salivano. Servivano capitali che Pesenti non poteva o voleva mettere a disposizione. Nel 1969 la Fiat stava facendo shopping: aveva appena comprato Autobianchi e Ferrari. Inglobò quindi per un tozzo di pane anche la Lancia.
La Fiat: l’epopea dei Rally con Fulvia, Stratos e Delta
Sarà stata fortuna, chissà, ma gli Agnelli si trovarono subito tra le mani un giocattolo d’oro come la Lancia Fulvia Coupé. Uscita nel 1965, quella elegante e grintosa berlinetta disegnata da Piero Castagnero era perfetta per i rally.
Infatti cominciò subito a vincere nelle categorie minori con la versione Rallye HF. Dopo qualche evoluzione, fu proprio nel 1969 che il capo della neonata Squadra corse HF Lancia, Cesare Fiorio, riuscì a convincere i nuovi padroni a tentare l’avventura nel mondo che contava, cioè il nascente Campionato internazionale rally, che nel 1972 diventò il Campionato del mondo. Arrivò dunque la Fulvia Rallye 1.6 HF, “fanalone” per gli amici. 120 cavalli la versione stradale, 160 quella da corsa.
Qui cominciò un periodo che portò la Lancia nella leggenda di queste competizioni. Ben 23 anni trascorsi fra trionfi a ripetizione, che proiettarono l’immagine della casa a livelli mai visti prima e mai più raggiunti dopo. Per molti anni i successi furono legati ad un uomo simbolo: Sandro Munari, il “drago” di Cavarzere. I numeri non gli rendono giustizia, perché il mondiale piloti nacque solo nel 1977. Inoltre in quell’epoca non si correva spesso come oggi. Munari contribuì a far vincere alla Fulvia il campionato del 1972, contro la Fiat 124 Spider, cosa che al Lingotto non presero benissimo.
Ma la Fulvia era già in età da pensione. Nel 1973 arrivò la fantasmagorica Lancia Stratos. Una coupé a motore centrale, e che motore: nientemeno che il V6 della Ferrari Dino. Dopo qualche sofferenza iniziale, cominciarono le vittorie. Fu un dominio totale dal 1974 al 1977. Tre mondiali costruttori e il primo mondiale piloti, grazie al drago. La Stratos, benché ancora superiore, fu essenzialmente “giustiziata” dalla Fiat, che voleva spingere la 131 Abarth e quindi tagliò il budget alla Lancia.
Soddisfatte le ambizioni Fiat, nel 1983 la Lancia tornò vincente nel mondiale costruttori con la Lancia 037, l’ultima auto a due ruote motrici (posteriori) a conquistare un campionato, con piloti quali Markku Alen e i compianti Attilio Bettega ed Henri Toivonen.
Nel frattempo, nel 1979 la produzione di serie aveva visto l’introduzione di una vettura media, la Lancia Delta, disegnata da Giorgetto Giugiaro su meccanica della Fiat Ritmo. Fu lei la vera erede della Fulvia. Era una berlina al passo coi tempi, quindi con carrozzeria a due volumi; le vendite furono buone fin dall’inizio; però, allo stesso modo della Fulvia, l’ingresso del modello nelle corse del mondiale rally ne spinse enormemente l’immagine e, di conseguenza ne moltiplicò il ritorno commerciale. Perché la Delta riportò la casa italiana al vertice delle competizioni, recuperando sulla forte concorrenza di Audi e Peugeot. Cominciò la paurosa S4, un animale da corsa, pilotata da gente come Alen, Toivonen, Miki Biasion e Dario Cerrato; vinse 5 gare nelle due stagioni dominate dalla Peugeot 205.
Poi fu la volta della Delta HF 4WD e soprattutto della Delta Integrale. Qui si entra nel mito. Vinse sei mondiali costruttori consecutivi, dal 1987 al 1992, e quattro titoli piloti, di cui tre consecutivi, con Juha Kankkunen e Miki Biasion. Quella macchina acquisì un tale prestigio che ancora oggi la Lancia Delta Integrale, Deltona per gli amici, è rimpianta dagli appassionati, molti dei quali considerano qulla vettura l’ultima, vera Lancia.
Tra XX E XXI Secolo: l’irreversibile declino
Sì, perché l’atteggiamento della dirigenza Fiat verso questo marchio non si mostrò troppo amichevole. I finanziamenti per le competizioni furono tolti all’apice del successo, così nel 1993 ci fu il ritiro della casa dal mondiale rally. Per sempre. Anche l’attività produttiva innescò una lenta ma inesorabile spirale negativa. L’ultimo acuto fu nel 1984, la Thema.
Un’ammiraglia a trazione anteriore, condivideva la piattaforma costruttiva con Alfa Romeo 164, Fiat Croma e Saab 9000. C’era ancora la mano di Giugiaro sulla carrozzeria. Fu l’ultimo modello a condividere lo spirito di Vincenzo Lancia: innovazione ed eccellenza tecnica. Restò in produzione per dieci anni e vendette più di 330.000 esemplari, un grande successo. Da ricordare la Thema 8.32, che montava un motore V8 Ferrari.
Poi una serie di errori strategici distrusse progressivamente l’immagine della Lancia, nonché la sua importanza industriale e commerciale. L’azienda sopravvive ancora oggi su un solo modello: la piccola citycar Ypsilon, le cui origini risalgono alla Y10 nata nel 1985, inizialmente venduta col marchio Autobianchi. Simpatica, elegante e dalle vendite consistenti, ma niente a che vedere con la tradizione Lancia. Un’azienda che non avrà un futuro: è stato infatti deciso di non produrre più nuovi modelli. Consoliamoci con lo splendido passato.
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