Da strumento di propaganda nazista a preda di guerra, da simbolo della ricostruzione tedesca a primo gruppo automobilistico mondiale: la Volkswagen compie 82 anni.
Da quel lontano 28 maggio 1937 sono accadute tante cose, eventi straordinari e ordinaria amministrazione, successi planetari, espansione globale, la formazione di una vera e propria galassia di marchi e attività; poi lo scandalo dieselgate che ha fatto seriamente tremare il gigante, dal quale è partita una svolta che cambierà profondamente non solo il costruttore tedesco ma molto probabilmente l’intera industria mondiale che ruota intorno all’auto, per non dire l’automobile stessa.
Gli effetti li vedremo solo fra qualche anno ma non tarderanno ad arrivare. Restano tuttavia i punti fermi della storia, che niente potrà cancellare: Volkswagen ha motorizzato la Germania, contribuendo in misura non secondaria a trasformarla da un ammasso di rovine belliche alla più importante nazione europea. Non solo: il successo del celebre Maggiolino fu talmente vasto che possiamo tranquillamente definire questo modello l’auto che ha motorizzato il mondo, perché era alla portata di tutti e venne venduta ovunque. Una vera auto del popolo. Volkswagen, appunto.
Gli inizi: quando Hitler voleva un’auto
L’idea di un’auto di piccole dimensioni il cui prezzo fosse alla portata della maggior parte delle persone cominciò a farsi largo nel mondo a ridosso della prima guerra mondiale, quando divenne quasi planetario il successo della Ford Modello T. Ma in Europa ci si trovava ancora piuttosto indietro. In Germania negli anni Venti, in mezzo ad una rovinosa crisi economica e valutaria provocata dalla disfatta bellica, si cominciò a ragionare sulla questione. Ferdinand Porsche disegnò i primi schemi di una tale vettura nel 1922, la chiamava Sascha.
Ma i tempi non erano ancora maturi. Nel 1931, diventato un progettista indipendente, si spinse più avanti, disegnando per il costruttore Zundapp un modello a quattro posti e due porte. Nel 1933 per la NSU progettò un’auto con motore posteriore a quattro cilindri boxer raffreddato ad aria. Erano i tratti salienti del futuro Maggiolino. Ma la crisi finanziaria mondiale successiva al crollo di Wall Street del 1929 ne precluse la produzione.
Adolf Hitler salì al potere nel 1933 e subito annunciò un programma di sostegno governativo all’industria automobilistica. Come Mussolini prima di lui, il capo del nazismo intuì subito il potenziale propagandistico della motorizzazione di massa. Porsche fu tra i primi a sottoporre al governo un progetto per un’auto economica, compatta e leggera, in grado anche di raggiungere 100 Km/h, ottimali per l’Autobahn, l’autostrada recentemente inaugurata.
Nel 1934 il governo siglò un accordo con i rappresentanti dell’industria automobilistica tedesca per la produzione di un’auto popolare, “l’auto del popolo tedesco”, da vendere al prezzo di 990 marchi. Il termine Volkswagen era già entrato in circolazione. Si sarebbe dovuto trattare di un’impresa collettiva, dati gli enormi costi in gioco. Il compito di progettare il veicolo fu affidato a Ferdinand Porsche, il quale aveva la propria azienda in una località periferica di Stoccarda, Zuffenhausen: un luogo che per sempre sarebbe stato associato a quel cognome.
Tra mille difficoltà (progettare un’auto entro quei limiti di prezzo era tutt’altro che facile), i primi prototipi cominciarono i test nel 1936. All’inizio del 1937 i problemi tecnici furono risolti. L’auto era pronta per la produzione. Tuttavia rimanevano i problemi finanziari ed erano molto pesanti. Non c’erano le prospettive di ottenere profitti al prezzo di vendita preventivato. Inoltre le materie prime e la valuta estera erano scarse. Anche la manodopera specializzata era insufficiente.
Ma il regime nazista tirò dritto. Il 28 maggio 1937 venne ufficialmente costituita la “Gesellschaft zur Vorbereitung des Deutschen Volkswagens”, società per avviare la realizzazione dell’auto del popolo tedesco. Ferdinand Porsche fu uno dei direttori. In breve venne avviata la costruzione della fabbrica nella località che oggi è nota come Wolfsburg. Il 26 maggio 1938 ci fu la cerimonia della posa della prima pietra. In mezzo ad una colossale fanfara propagandistica, Adolf Hitler battezzò il veicolo progettato da Porsche “KdF-Wagen”, l’auto della forza attraverso la gioia, dallo slogan nazista “Kraft durch Freude”. Decisamente nelle operazioni di marketing era molto più bravo Joseph Goebbels.
Ma servivano capitali.
Venne ideata quindi una sottoscrizione popolare per finanziare la produzione: chi voleva acquistare l’auto avrebbe potuto versare una quota di 5 marchi alla settimana: ancora troppo per gli operai tedeschi di quell’epoca. Parteciparono 336.000 sottoscrittori, molti meno del necessario, così le operazioni rallentarono pesantemente. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, nemmeno un esemplare di Volkswagen (o KdF-Wagen) era stato immesso sul mercato, venne prodotta solo una piccolissima serie dimostrativa. Ben presto la fabbrica fu riconvertita per le esigenze belliche; venne fatto largo uso di manodopera forzata, fra prigionieri di guerra e deportazioni varie. Dai progetti iniziali venne ricavato un veicolo militare anfibio da trasporto leggero per gli ufficiali (la Kübelwagen, l’auto tinozza), ma niente più.
Il Dopoguerra: l’occupazione britannica, la vera nascita della Volkswagen
Dopo l’occupazione militare della Germania al termine della guerra, la regione in cui si trovava Wolfsburg venne assegnata all’autorità militare britannica. C’erano molte pressioni inglesi e francesi per requisire tutti gli impianti come riparazioni belliche. Ma prevalse la logica: la fabbrica era l’unica fonte produttiva da cui trarre reddito per la popolazione locale, ridotta alla fame. Inoltre anche le forze britanniche di stanza in Germania avevano urgente necessità di mezzi di trasporto. Si decise quindi di ricostruire lo stabilimento e riprenderne l’attività, naturalmente riconvertendola alla produzione civile; era il 27 dicembre 1945. Il merito principale della nascita effettiva della Volkswagen va attribuito ad un solo uomo: il maggiore Ivan Hirst, nominato responsabile della struttura dal governo militare britannico. Fu l’inizio della rinascita. Nel 1949, ricostituite le istituzioni democratiche nella Germania Occidentale, gli inglesi consegnarono la Volkswagen allo Stato (Land) della Bassa Sassonia per conto del Governo federale.
Il Maggiolino: per tutti “la Volkswagen”
Ora entriamo nel dettaglio dell’auto che fu il simbolo dell’intera rinascita tedesca. Intanto precisiamo il nome. Tecnicamente il modello nacque come Volkswagen Typ 1, Tipo 1. Data la caratteristica forma della carrozzeria che ricordava un insetto, la macchina venne subito soprannominata dai tedeschi Käfer, cioè scarafaggio. Inglesi e americani optarono per Beetle e Bug, uguale significato. Più gentili i francesi, Coccinelle.
I più eleganti di tutti siamo stati noi italiani con Maggiolino. Poiché per circa un quarto di secolo questo fu l’unico modello prodotto dalla casa (accanto al furgoncino Transporter, il celebre “Bulli”, che ne condivideva la meccanica), divenne universalmente noto come “La” Volkswagen. Ferdinand Porsche aveva infuso tutto il suo genio in questa vetturetta, trasferendo in quel progetto le soluzioni che inventò negli anni ’30 per le famose Auto Union che contesero a Mercedes e Alfa Romeo la scena dei gran premi. Tuttavia Porsche prese ispirazione per il modello di serie anche da un’auto cecoslovacca, la Tatra V570, che aveva caratteristiche simili, al punto che quell’azienda fece causa per violazione di brevetti e negli anni ’60 Volkswagen pagò un sostanzioso risarcimento.
Il Maggiolino aveva motore posteriore a sbalzo di tipo boxer (cioè montato dietro l’asse e a cilindri contrapposti), raffreddato ad aria, il marchio di fabbrica delle Porsche 356 e (fino al 1997) 911. Non si trattava di una striminzita city car, infatti la lunghezza di 4.079 millimetri (col passo di 2.400) la rendeva abitabile per 4 persone e utilizzabile per viaggi medio-lunghi. La cilindrata di 1.192 cc e la potenza di 30 cavalli per un peso di 740 Kg ne facevano una macchina dalle prestazioni superiori rispetto alla media delle piccole dell’epoca (peraltro ancora piuttosto rare). Oltre ad essere relativamente veloce, il Maggiolino aveva un design gradevole, una spiccata personalità; poi era robustissimo, avendo superato indenne l’uso bellico nei deserti con l’Afrika Korps.
Il successo fu immediato ed enorme. Dai primi 20.000 esemplari ordinati dal governo militare britannico per le truppe alleate di stanza in Germania, si passò ben presto alle esportazioni, prima in Europa poi nel resto del mondo. Era cominciato il boom economico tedesco. Nel 1955 venne prodotto il milionesimo esemplare. Nel 1958 si pensò ad un restyling del Maggiolino e i dirigenti tedeschi interpellarono la Pininfarina. I carrozzieri torinesi risposero: “E’ già perfetto così, perché cambiarlo?”. Venne solo modificato il lunotto, non più separato in due parti. Negli anni i motori vennero ampliati, si aggiunsero le cilindrate 1.3 e 1.5. Presto venne affiancata la versione cabriolet. Ma il Maggiolino rimase sostanzialmente uguale a se stesso dall’inizio alla fine.
Arrivato negli Stati Uniti, il Bug sbancò il mercato, perché diventò l’auto simbolo degli Hippies, il ruolo che in Europa fu affibbiato alla Citroën 2CV. Di milione in milione, il Maggiolino raggiunse l’inarrivabile: superò nientemeno che la Ford Modello T, diventando l’auto più venduta di tutti i tempi. Il record venne battuto nel 1972 con l’esemplare numero 15.007.034. La produzione proseguì in Germania fino al 1978. Ma il Maggiolino aveva ancora molto da dire: gli impianti furono trasferiti in Messico, dove questa macchina continuò ad essere costruita fino al 2003, essenzialmente immutata.
L’ultimo esemplare uscito dalla linea di assemblaggio fu il numero 21.529.464. Una postilla sul record di vendite. Altri modelli hanno superato ampiamente questa cifra, come Toyota Corolla, Ford F-150 e la stessa Golf. Tuttavia si tratta di criteri di conteggio discutibili, perché mettono insieme vetture che hanno poco o nulla in comune con quelle originarie. Invece il Maggiolino fu realmente un modello unico. Quindi, moralmente se non ufficialmente, questa rimane ancora oggi l’auto più venduta di tutti i tempi.
Oltre il Maggiolino: la Golf, l’espansione mondiale
Nel 1960 la Volkswagen venne privatizzata, mantenendo però la forma della public company. Attualmente il controllo dei diritti di voto è di Porsche Automobil Holding col 52,2%, seguita dallo Stato della Bassa Sassonia col 20% e la Qatar Holding col 17%. Il maggiore azionista è sempre Porsche Automobil Holding col 30,8%. Seguono diversi fondi d’investimento. A sua volta il gruppo Volkswagen detiene la metà delle azioni della Porsche, il cui marchio è quindi parte integrante del gruppo di Wolfsburg. In termini molto rozzi, Volkswagen e Porsche si possiedono a vicenda.
Gli anni Sessanta videro una forte espansione e la trasformazione dell’azienda in un gruppo multinazionale. Vennero acquisiti Auto Union ed NSU, poi fuse per rispolverare il marchio Audi (nato nel 1910 e negli anni ’30 confluito in Auto Union). Una mossa necessaria per diversificare i prodotti, non più sostenibili su un modello unico. Infatti, mentre il Maggiolino era ancora una star, la Volkswagen tentò di affiancargli altri modelli, ma furono tutti fallimentari.
La sostituzione del Maggiolino dunque non era più rinviabile. Ancora una volta i tedeschi si rivolsero agli italiani. A Giorgetto Giugiaro, per la precisione. La sua Italdesign aveva già disegnato auto molto interessanti e di successo, come l’Alfa Romeo Alfasud. La Volkswagen gli affidò il compito di creare l’erede del mostro sacro. Dalla matita del geniale designer piemontese allora uscì la Golf. La produzione cominciò nel 1974. La Volkswagen Golf era radicalmente diversa dal Maggiolino. Squadrata invece di tondeggiante; tutta avanti (nel senso di motore e trazione) invece di tutta dietro, raffreddata ad acqua invece che ad aria; ma come l’illustre antenata, questa vettura ne condivideva la praticità. Rispondeva alle esigenze del pubblico di quegli anni: economicità e consumi ragionevoli in anni di crisi petrolifera e alta disoccupazione.
Oggi, dopo più di 40 anni, parliamo ancora della Golf. Semplicemente perché la vogliono tutti. Per diversi anni è stata l’auto più venduta in Europa e lo è tuttora. I numeri parlano da soli: oltre 25.000.000 di esemplari venduti, sebbene come detto la Golf attuale abbia in comune con quella originale solo il nome e poco altro. Piace e si vende perché ha ereditato i pregi del Maggiolino: bel design, meccanica affidabile, robustezza, tenuta del valore nel tempo; a cui si sono aggiunte tutte le raffinatezze rese possibili dalla tecnologia odierna.
Capitalizzando sulla Golf, la Volkswagen ha creato una gamma completa di prodotti per ogni segmento di mercato: Polo, Passat, Jetta, poi Scirocco, Corrado e addirittura l’ammiragliona Phaeton, poi i SUV del giorno d’oggi. Nel frattempo la campagna acquisti è proseguita imponente. Seat, Lamborghini, Bentley, Bugatti, Skoda, i mezzi pesanti Scania e MAN, perfino le moto Ducati. Una vera e propria galassia di marchi. Negli ultimi anni il gruppo Volkswagen ha duellato con Toyota per l’alloro di maggior produttore mondiale di automobili, arrivando alla soglia dei 10 milioni di unità vendute all’anno.
Lo scandalo DieselGate
Sono passati due anni dalla sua esplosione e la vicenda è ben lontana dall’essere conclusa, meno che mai completamente chiarita. Sarà materia per i posteri. Ricapitoliamo ciò che è emerso finora. Fin dagli anni ’70 gli Stati Uniti hanno varato leggi per limitare i consumi di carburante, inizialmente per contrastare la crisi petrolifera, successivamente per considerazioni di carattere ambientale. Sono così nate leggi che progressivamente hanno limitato le emissioni di gas inquinanti. Anche l’Unione Europea si è accodata.
Il 18 settembre 2015 è scoppiata una bomba di potenza devastante. L’EPA, agenzia di protezione ambientale americana, ha denunciato il gruppo Volkswagen per violazione del Clean Air Act, la legge federale che regola le emissioni dei veicoli. L’agenzia ha scoperto che nei motori diesel dei marchi Volkswagen e Audi omologati negli USA dal 2009 al 2015, i famosi 2.0 TDI, esisteva un software nella centralina del motore che si “accorgeva” di quando il veicolo era sottoposto ai test di laboratorio e regolava i parametri per emettere gas di scarico nelle quantità prescritte dalla legge. Salvo poi disattivarsi durante l’uso stradale, quindi inquinando molto più di quanto legalmente consentito. E’ il dispositivo diventato noto come “defeat device”. Illazioni? Calunnie? Manovre politiche? No, tutto vero. Messi di fronte alla minaccia da parte dell’EPA di bloccare le omologazioni di tutti i modelli diesel del gruppo per il 2016, i dirigenti Volkswagen hanno ammesso la manipolazione. Un vero e proprio scandalo emissioni, ribattezzato dai media scandalo dieselgate (gioco di parole con lo scandalo Watergate che coinvolse negli anni ’70 il presidente USA Richard Nixon).
Dopo qualche riluttanza e il crollo delle azioni in borsa (il 32% in due giorni), il 23 settembre 2015 è caduta la testa più importante: Martin Winterkorn, amministratore delegato del gruppo Volkswagen dal 2008, ha rassegnato le dimissioni. Al suo posto è subentrato Mathias Müller, spostato dalla Porsche. La bufera non si è certo placata, anzi. Successivamente sono emerse cifre molto preoccupanti, comunicate dalla stessa azienda.
Sono coinvolte più di 11 milioni di autovetture, commercializzate anche in Europa. Il codice del motore è EA 189, classe ambientale Euro 5. Si sono moltiplicate come funghi le cause legali. Il gruppo ha stanziato oltre 7 miliardi di dollari per riparare i danni. Le battaglie nei tribunali dureranno per anni e le conseguenze sono al momento incerte. L’aspetto più doloroso è il taglio entro il 2021 di 30.000 lavoratori a livello globale (su circa 626.000), dopo accordi siglati con le varie forze sindacali.
Dopo la tempesta: il futuro elettrico
Lo scandalo dieselgate ha fatto vacillare il colosso Volkswagen da un punto di vista finanziario e d’immagine. Ma la realtà è che continua a produrre eccellenti automobili e la gente nel mondo ha continuato a comprarle, compresi i modelli diesel.
Quindi il gruppo tedesco continua a disporre di un imperioso afflusso di risorse che permetterà di assorbire nel tempo le batoste che arriveranno dai tribunali. Ma nel frattempo si è scatenata una violenta guerra alla tecnologia diesel da parte del mondo politico ed ambientalista, molto ideologica e poco basata sui fatti; inoltre le prossime norme sulle emissioni colpiranno i motori a gasolio così forte da renderli troppo costosi da produrre perché restino competitivi.
Quindi i nuovi vertici di Volkswagen (seguiti presto dalla maggior parte dei concorrenti) hanno deciso di voltare pagina e ricostruire l’immagine dell’azienda cambiando completamente strategia. E’ la svolta elettrica. Nel 2016 Müller ha annunciato i prossimi piani: nei prossimi 10 anni verranno prodotti 30 nuovi veicoli completamente elettrici; il gruppo prevede di arrivare al 2025 con una quota di fatturato di almeno il 25% proveniente dai veicoli elettrici.
Una nuova fabbrica di batterie in Germania dovrebbe compensare la ridotta produzione di motori termici. Si presume che la produzione di veicoli elettrici debba creare circa 9.000 posti di lavoro. Solo il tempo saprà trovare le risposte.
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