Il 25 luglio 2018 ci lasciava improvvisamente Sergio Marchionne. Solo qualche giorno prima venne diffusa la notizia delle sue gravi condizioni. Fu un fulmine a ciel sereno che sconvolse l’intero mondo dell’industria automobilistica e oltre. Giustamente, perché tale è stata la caratura di questo personaggio. Un manager che ha preso in mano un gruppo industriale sull’orlo del tracollo e pazientemente l’ha non solo risanato, ma anche trasformato e preparato ad affrontare le difficili sfide del futuro.
L’INTUIZIONE FINALE DI UMBERTO AGNELLI
Torniamo indietro nel tempo. E’ il 27 maggio 2004, muore Umberto Agnelli, presidente del Gruppo Fiat da circa un anno. La situazione non potrebbe essere peggiore, l’azienda è letteralmente ad un passo dal fallimento, Umberto ha potuto solo avviare la strategia di drastiche dismissioni nei settori esterni all’automobile; la malattia, un tumore, gli ha impedito di continuare.
Tuttavia il fratello dell’Avvocato, proprio negli ultimi mesi, riesce a trovare il tempo di elargire a chi sarebbe venuto dopo di lui il suggerimento per una decisione che avrebbe restituito un futuro all’impresa fondata da suo nonno.
Umberto Agnelli infatti consigliò ai suoi principali collaboratori di affidare la Fiat ad un giovane manager sconosciuto ai più: Sergio Marchionne.
Da un anno si era timidamente seduto nel consiglio di amministrazione dell’azienda, sempre per volontà di Umberto, il quale aveva notato le sue qualità osservandolo nei due anni precedenti, in cui Marchionne aveva diretto la SGS, grande multinazionale svizzera nel campo dei sistemi di sicurezza e certificazione per le imprese, controllata dalla Ifil della famiglia Agnelli. Questo giovane dirigente, arrivato alla SGS a 50 anni, l’aveva presa in condizioni molto difficili e rilanciata alla grande in brevissimo tempo. Aveva il piglio giusto per affrontare anche la madre di tutte le battaglie, il salvataggio e la trasformazione della Fiat.
Il consiglio di amministrazione non perse tempo e raccolse in pieno quelle indicazioni. Così solo quattro giorni dopo la morte di Umberto Agnelli, il 1° giugno 2004 Sergio Marchionne venne nominato nuovo amministratore delegato del Gruppo Fiat. Il rinnovamento del vertice si completava con Luca Cordero di Montezemolo nella carica di presidente e come vicepresidente il giovanissimo John Elkann, 28enne nipote di Gianni Agnelli.
Dieci anni dopo, a miracolo già ampiamente avvenuto, Marchionne avrebbe ricordato, in un discorso di commemorazione dedicato ad Umberto Agnelli, di essere stato guidato dai valori a cui quest’ultimo s’ispirò quando egli stesso prese il comando della Fiat: senso di responsabilità e del dovere: “Lo abbiamo fatto non solo per assicurare all’azienda di sopravvivere e avere un futuro, ma anche per garantire che continuasse ad essere quel motore di progresso economico e civile che storicamente ha rappresentato per il Paese”.
GLI INIZI DI SERGIO MARCHIONNE: DA FILOSOFO A MANAGER
Sergio Marchionne si è letteralmente fatto da solo. Non è nato nei privilegi, quel 17 giugno 1952 a Chieti. Suo padre era un maresciallo dei Carabinieri. La famiglia si trasferì in Canada, a Toronto, quando lui aveva 14 anni. Il ragazzo si mostrò subito promettente, infatti conseguì tre lauree; la prima in filosofia, alla quale è rimasto particolarmente affezionato (“Mi ha aperto gli occhi”, ha commentato più volte); seguirono la laurea in giurisprudenza e il master in economia aziendale.
[st-gallery id=”5b5952f8e1df7″]La sua carriera cominciò in qualità di commercialista; fu poi procuratore legale, avvocato e contabile. Dalla seconda metà degli anni Ottanta entrò nel mondo manageriale. A cavallo del secolo si trasferì in Svizzera, dove ricoprì ruoli di primo piano in alcune multinazionali. Fino all’ingresso nel 2002 nella SGS, come accennato.
FIAT, UN GIGANTE CHE STAVA PER CROLLARE
Quanto era messa male la Fiat nel momento in cui Marchionne ne assunse la guida? Molto. Nel 2004 il bilancio consolidato mostrava una perdita di 1,5 miliardi di euro, praticamente il gruppo perdeva circa due milioni al giorno. L’impresa era immane. Marchionne ci mise tutta l’energia di cui poteva disporre, tutte le sue profonde capacità analitiche.
Tanto era da ricostruire. A partire dall’ambiente stesso delle fabbriche. Qualche anno fa raccontò in un’intervista al quotidiano La Repubblica che in quei primi e solitari mesi del 2004 egli perlustrasse regolarmente tutte le fabbriche; nel weekend, ad impianti fermi, si aggirava per Mirafiori ispezionando mensa, spogliatoi e bagni. E si rese conto che andava cambiato tutto: “Come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e farli vivere in uno stabilimento così degradato?”.
Ma per ricostruire servivano prima i soldi, che non c’erano. L’azienda sopravviveva grazie ad un prestito di circa 3 miliardi concesso dalle principali banche italiane con la speciale formula del “convertendo”, uno strumento oggi non più permesso dalle nuove regole bancarie: praticamente alla scadenza del finanziamento, in quel caso tre anni, il prestito si trasforma in azioni della società debitrice; le banche avrebbero quindi incamerato la Fiat. La prima mossa di Marchionne fu proprio quella di rinegoziare tale prestito; un successo non indifferente, che conservò alla famiglia Agnelli il controllo dell’azienda.
IL DIVORZIO MILIARDARIO DALLA GENERAL MOTORS
Siamo al 2005, a febbraio Marchionne assume anche la carica di amministratore delegato di Fiat Auto. Perché dalle auto si deve ripartire, non andarsene. E qui arriva il secondo colpo grosso che scompiglia le carte. Secondo accordi siglati nel 2000 con la General Motors, dal 2005 la Fiat avrebbe avuto il diritto di esercitare un’opzione di vendita dell’intera azienda al colosso americano. Un’eventualità che però cinque anni dopo nessuno dei due protagonisti trova più appetibile. Così dopo una serrata trattativa arriva l’accordo fra Torino e Detroit: la Fiat non vende e GM paga 2 miliardi di dollari, corrispondenti ad 1,55 miliardi di euro nel 2005.
Tale manovra ha avuto un’influenza non secondaria nell’ottenimento dei primi risultati importanti sui conti del gruppo, come il ritorno all’utile netto per la prima volta dopo cinque anni, valore 1,4 miliardi. E’ il momento migliore per lanciare la Grande Punto e un piano triennale d’investimenti per 10 miliardi. Nel 2006 la crisi è finita e l’azienda è in piena corsa: le vendite in Europa e in Brasile sono in piena ascesa. Siamo nel 2007 e si stappa lo champagne col lancio della nuova Fiat 500.
LA CHRYSLER, L’AFFARE DEL SECOLO
Ma nel 2008 torna la tempesta. La crisi bancaria americana travolge anche il resto del mondo. Fiat tampona in Italia ricorrendo in modo consistente alla cassa integrazione. Tuttavia nel 2009 Marchionne vede un’opportunità d’oro. Le tre grandi di Detroit sono alla canna del gas; Ford sceglie di farcela da sola, ma General Motors e Chrysler arrivano all’amministrazione controllata e si mettono nelle mani del governo federale. L’amministrazione di Barack Obama però non ha le risorse per salvare entrambe e si concentra sulla GM. Chrysler quindi è ad un passo dal fallimento.
Allora Marchionne mette a segno il colpo da maestro: dopo una trattativa molto complicata con la Casa Bianca e il potentissimo sindacato metalmeccanico americano UAW la Fiat acquisice il 20% delle azioni Chrysler. Marchionne vede subito che nel colosso americano c’è una gallina dalle uova d’oro che attende solo di tornare a fare il proprio dovere: la Jeep. Nel 2011 Chrysler torna già all’utile. Negli anni successivi la Fiat rileverà il pacchetto completo, procedendo alla fusione nel 2014: sarebbe nata Fiat Chrysler Automobiles, FCA, il sesto gruppo automobilistico del mondo. E la sede legale avrebbe lasciato Torino dopo 115 anni, trasferendosi ad Amsterdam, mentre la sede legale sarebbe andata a Londra.
Qui molti, soprattutto nel mondo politico e sindacale, hanno pesantemente criticato Marchionne, accusandolo di aver fatto scappare la Fiat dall’Italia per pagare meno tasse. Innanzitutto la mossa rientra in un complesso meccanismo finanziario messo in atto per creare una base stabile di azionisti di riferimento, che la doppia sede avrebbe facilitato; in questo modo la famiglia Agnelli avrebbe continuato a mantenere il controllo del gruppo. In secondo luogo, le fabbriche italiane hanno continuato ad operare, e non sarebbe stato difficile chiuderle, come invece hanno fatto fin troppe industrie italiane. Un’azienda segue il proprio obiettivo: produrre utili. Se il sistema fiscale di una nazione è opprimente, la colpa è di chi ha creato le leggi oppressive, non delle aziende.
GLI SCHIAFFI A CONFINDUSTRIA E FIOM
Passo indietro, 2010, torniamo in Italia, dove Sergio Marchionne assesta un colpo d’ariete alle ammuffite (per non dire peggio) consuetudini industriali e sindacali: nel giro di pochi mesi rompe il contratto nazionale dei metalmeccanici, abbandona la Confindustria e propone ai sindacati un accordo che punta sulla flessibilità: sul piatto mette il rilancio della fabbrica di Pomigliano d’Arco, investimenti importanti per impiantare la produzione della nuova Panda.
La maggior parte delle sigle sindacali firma l’accordo. Ma la Fiom fa una guerra di retroguardia, come al solito, dato che la sua storia è legata ad un’ideologia distruttiva. Combatte in tribunale ma nel frattempo i lavoratori la sconfessano clamorosamente, votando in due referendum a favore dell’accordo con un’ampia maggioranza. Esattamente come negli anni ’50 e ’60 quando il nemico della Fiom era Vittorio Valletta, i lavoratori hanno fatto capire che a loro interessa lavorare, non fare politica.
LA SEPARAZIONE DELLA FERRARI, ALTRO COLPO DA MAESTRO
Ormai l’acceleratore è spianato. Sergio Marchionne prepara il rilancio di un altro marchio in grande difficoltà, l’Alfa Romeo. L’idea è di creare un polo del lusso insieme a Maserati valorizzando proprio l’italianità di queste aziende. Vengono elaborate in questo periodo le strategie che faranno nascere la 4C nel 2013, la Giulia nel 2016 e il primo SUV, Stelvio, nel 2017. Non senza prima procedere ad un’altra operazione che ha stupito tutti ma ha dato subito frutti concreti: la separazione (spin-off in gergo finanziario) della Ferrari da FCA.
Qui Marchionne ha voluto prendere in mano direttamente la situazione, compresa la difficoltà della scuderia di Formula 1 nel tornare vincente, e ciò lo ha portato ad un duro scontro con Montezemolo, il quale nel 2014 ha lasciato la presidenza. Quindi il capo di FCA ha assunto in prima persona le cariche di presidente e, dopo alcune settimane, di amministratore delegato dell’azienda di Maranello.
Lo spin-off di un’azienda è una manovra che si fa di solito per due motivi: prepararla ad una cessione o aumentarne il valore quotandola in borsa. Buona la seconda, per quanto riguarda la Ferrari. E in nome della globalità del marchio, la prima quotazione è stata a New York, al mercato NYSE, a gennaio 2016; successivamente è arrivato anche l’ingresso nel listino di Milano. Un’operazione analoga era stata compiuta nel 2011 anche per CNH Industrial, la costola di Fiat che produce camion, trattori, autobus e macchine per movimento terra. Il Cavallino in borsa si è mostrato quanto mai rampante, raddoppiando la sua quotazione in meno di due anni, sia a Wall Street che a Piazza Affari.
DEBITO AZZERATO, L’ULTIMA BATTAGLIA
Sergio Marchionne avrebbe dovuto ritirarsi alla scadenza del suo contratto, nell’aprile 2019. Gli restavano due grandi sfide: azzerare l’enorme debito industriale netto del gruppo e blindare il futuro tramite un’altra alleanza di alto livello, mediante acquisizione, fusione o partnership strategica di lungo termine; perché nell’industria automobilistica di oggi le dimensioni sono essenziali per contenere i costi sempre più pesanti. Ci aveva già provato in precedenza tentando di acquisire la Opel dalla General Motors, ma pare che Angela Merkel avesse esclamato un sonoro “nein!”. Ancora negli ultimi anni ha tentato in tutti i modi di “fare la corte” a Mary Barra, sua omologa della GM, per convincerla a “sposarlo”. Perché l’unico “coniuge” possibile di FCA poteva provenire solo dai vicini di casa a Detroit. Ma non c’è stato nulla da fare. L’unica vera sconfitta nella carriera di Sergio Marchionne.
E’ invece stato colto in pieno l’obiettivo di azzerare il debito industriale netto, che in passato aveva raggiunto anche 15 miliardi di euro. Marchionne lo desiderava così ardentemente da avere promesso che, se ci fosse riuscito, avrebbe indossato una cravatta il giorno in cui avrebbe presentato il piano industriale per il 2022. Così è stato. Il 1° giugno 2018, a Balocco, Sergio Marchionne si è mostrato ad investitori e media e prendendo il microfono, ha esordito così: “Come potete osservare dalla mia cravatta ben annodata…”. Citava un aforisma di Oscar Wilde, secondo cui una cravatta ben annodata è il primo passo serio nella vita. Ma il manager la indossava sopra quel maglione che non abbandonava mai.
I numeri testimoniano più di ogni altra considerazione l’enorme successo di Sergio Marchionne alla guida della Fiat-FCA. Prima delle speculazioni compiute dai soliti squali della finanza di carta in questi ultimi giorni dopo l’annuncio della sua malattia e anche nel giorno stesso della morte, la capitalizzazione complessiva (cioè il valore delle azioni) di FCA, CNH e Ferrari era di circa 60 miliardi di euro. Nel 2004 l’allora Gruppo Fiat arrivava a malapena a 5,5 miliardi.
In 14 anni i ricavi sono passati da 47 a 147 miliardi. L’utile netto, il risultato più importante: da una perdita di 1,5 miliardi ad un profitto di 4,4 miliardi; nel 2004 perdeva due milioni al giorno, ora in un giorno ne guadagna cinque. E sono tornati anche i dividendi.
La malattia gli ha impedito di chiudere la sua carriera dedicandosi alla sola Ferrari fino al 2021. Ma quello che Sergio Marchionne ha realizzato è impossibile da dimenticare. L’Italia intera deve ringraziarlo.